RASSEGNA STAMPA

IL SECOLO XIX - G8, De Gennaro depistò per salvare se stesso

Genova, 18 dicembre 2010

G8: MOTIVATA LA SENTENZA
DE GENNARO DEPISTÒ PER SALVARE SE STESSO

Gianni De Gennaro, capo della polizia, è stato condannato a 16 mesi perché dopo il G8 di Genova indusse il questore Colucci a mentire per nascondere «un suo diretto coinvolgimento nella vicenda Diaz», finita in un fallimento. È la motivazione della sentenza del tribunale di Genova.

LE MOTIVAZIONI DELLA CONDANNA A 16 MESI PER I DISORDINI DI GENOVA
G8, De Gennaro depistò per salvare se stesso
L’allora capo della Polizia spinse il questore a dire il falso

GRAZIANO CETARA

La marcia indietro richiesta all’ex questore di Genova, le falsità insinuate nella sua mente «piena di ricordi confusi e lacune», e poi i suggerimenti interessati sostenuti dalla minaccia implicita di ritorsioni dirette sulla carriera del sottoposto, avevano un fine chiaro agli occhi di chi ora giudica. E scrive. Il capo della polizia ai tempi del G8 «aveva con evidenza l’interesse a non far trapelare un suo diretto coinvolgimento nella vicenda Diaz». Di più. Aveva bisogno di alterare «l’accertamento dei fatti, delle loro modalità e delle responsabilità politiche e penali, dei fatti posti in essere durante quell’operazione». Per salvare prima di tutto se stesso.
L’irruzione nella sede del Genoa social forum alla fine di cortei, manifestazioni e scontri, si «era rivelata in un insuccesso delle forze di polizia». Non solo c’era scappato il morto, il giovane Carlo Giuliani, egli occhi del mondo avevano assistito inebetiti a una piazza fuori controllo. Ma i responsabili degli scontri, cioè i famigerati “Black bloc”, che ora sono riapparsi a Roma nelle devastazioni di martedì, l’avevano per giunta fatta franca.
Ecco il movente dei depistaggi di Giovanni De Gennaro, l’attuale numero uno dei Servizi segreti italiani, al vertice della polizia durante il summit degli scandali che si tenne a Genova nove anni fa.
È il cuore delle motivazioni della sentenza con cui il leader degli 007 del nostro Paese lo scorso 17 giugno fu condannato a un anno e quattro mesi di reclusione, (insieme all’ex responsabile della Digos genovese Spartaco Mortola, che prese 14 mesi), con pena sospesa e non menzione sulla fedina penale, benefici difficilmente negati ai servitori dello Stato. L’accusa? Aver impostato a tavolino, in un faccia a faccia riservato e senza testimoni nel suo ufficio di Roma, la falsa testimonianza di Francesco Colucci, ex questore di Genova ai tempi del G8. Il genovese avrebbe dovuto ritrattare quanto aveva dichiarato al pm nel corso delle indagini, e cioè che nulla si muoveva in quei giorni senza che De Gennaro lo sapesse e lo ordinasse. Al processo Diaz questo non poteva essere confermato, con la polizia sul banco degli imputati e i pm impegnati a dimostrare che tutta la catena di comando aveva convalidato il sangue e gli abusi, gli arresti farseschi e le prove farlocche come le bottiglie molotov prima apparse dal nulla e poi scomparse a processo in corso. E allora De Gennaro cercò di smarcarsi, ordinando a Colucci di dire il falso.

«LA VERITÀ NON SERVE»
Un «fatto rilevante», un «delitto contro l’attività giudiziaria», scrivono i giudici della Corte di appello di Genova Maria Rosaria D’Angelo e Raffaele Di Napoli nella sentenza depositata nei giorni scorsi con cui lo scorso 17 giugno l’assoluzione di primo grado fu completamente ribaltata. Un fatto grave, anche se il coinvolgimento del capo della polizia non era al centro del processo nel quale la falsa testimonianza dell’ex questore si concretizzò.
Non è importante ora, agli occhi dei giudici, stabilire chi disse il vero, tra Colucci e De Gennaro. E se fosse reale «la marcia indietro del capo» sulla sua presenza in spirito sul luogo del sanguinario blitz alla Diaz.
Il dato certo è che i due si contraddissero e che il più alto in grado si impose sul questore indicandogli l’inversione di marcia. Tra l’altro era un periodo delicato per Colucci «in fase di valutazione per la progressione in carriera» momento cruciale nel quale De Gennaro aveva una certa voce in capitolo.
I depistaggi emersero per incidente. I pm del processo Diaz, Francesco Cardona Albini e Enrico Zucca, cercavano le false molotov, prova regina delle calunnie per la Diaz, scomparse quando avrebbero dovuto trovarsi in questura.

PROVE “CASUALI”
Intercettando funzionari e artificieri si imbatterono nelle telefonate di preparazione della testimonianza di Colucci e, nei giorni successivi, le congratulazioni che fioccavano da colleghi vicini e lontani.
Da quelle intercettazioni telefoniche emerse che «il capo “ordinò” a Colucci di rivedere le precedenti dichiarazioni sulla questione Sgalla (vale a dire sulla presenza sul campo del portavoce del capo della polizia, ndr) per aiutare i colleghi imputati nel processo per l’irruzione nella scuola Diaz». Bisogna che aggiusti un po’ il tiro, è la frase che Colucci riferisce a Mortola dopo il colloquio con il numero uno dal quale era uscito con i verbali delle precedenti dichiarazioni di De Gennaro.

SAPEVA DI MENTIRE
E la prova, fa notare il giudice, è il mancato accenno del colloquio romano nella deposizione in aula del teste Colucci «ulteriore conferma della consapevolezza e volontà dell’imputato De Gennaro della portata istigatrice e di suggerimento di una versione dei fatti al teste Colucci contrastante dalle precedenti dichiarazioni e con la realtà».
I giudici poi sottolineano la portata rivelatrice dell’episodio della consegna all’indagato Colucci dell’avviso di garanzia per la falsa testimonianza. In una telefonata captata il questore parlava di un “plico” che doveva essergli consegnato dalla Finanza e si diceva «consapevole della sua attinenza con la testimonianza resa in aula al processo Diaz». In sostanza si tradì al telefono riportando i guai giudiziari all’aver dichiarato il falso sulla base del «contributo fornito da De Gennaro».

MINACCIA IMPLICITA
La richiesta «espressa ed esplicita di ritrattare» conteneva implicitamente una specie di minaccia: il passaggio avrebbe potuto avere ripercussioni dirette sulla carriera dell’exquestore di Genova. De Gennaro in questo modo, per il giudice «abusò anche della funzione pubblica esercitata e connessa al suo ruolo di Direttore generale del Dipartimento della Pubblica sicurezza».
Il ruolo di Spartaco Mortola, l’ex capo della Digos del capoluogo ligure, è stato altrettanto stigmatizzato dai giudici. Soprattutto perché il funzionario, nel processo che si tentò di pilotare, era uno degli imputati. Le sue conversazioni, con un collega che il giorno dopo avrebbe dovuto testimoniare, erano prima di tutto inopportune. Ma per la Corte di appello c’è di più: «Dal contenuto dei dialoghi intercettati, dallo stato di agitazione apertamente mostrato da Colucci con le sue continue richieste di chiarimenti sui fatti al centro del suo intervento nel processo Diaz», emerge che Mortola non poteva non rendersi conto degli effetti dei suoi suggerimenti: «Non ignorava né escludeva che le cose dette, seppur non appartenente al patrimonio di conoscenze dirette del questore, sarebbero state riferite dal teste come proprie». Non solo. Mortola «ben sapeva, in particolare, che sulla circostanza dell’ingresso nella scuola Pascoli (la scuola “vicina” della Diaz dove aveva sede il centro stampa dei no global, ndr) stava veicolando a Colucci una versione difensiva non corrispondente alla realtà dei fatti che, per altro, erano ben noti allo stesso Mortola».
Sono le parole del giudice. Da qui i difensori dei due imputati partiranno per il loro ricorso in Cassazione, in cerca di un nuovo, possibile ribaltamento della “verità”.